"Quando mi proposero l'incarico esitai. Il quadro del Paese era drammatico con la mafia che dilagava e la loggia segreta appena scoperta"
L'attuale presidente di Intesa-San Paolo, nell'agosto di 25 anni fa prese in mano il Nuovo Banco che nasceva dal Vecchio travolto dagli scandali.MILANO - "Fu un trauma. Ma anche grazie a quel trauma, è cambiata la storia del nostro sistema bancario". Tutto iniziò con quella firma. Domenica 8 agosto 1982: Giovanni Bazoli, per gli amici Nanni, allora "avvocato di provincia", decide di trasformarsi in "banchiere per caso". Mette la sua firma sull'atto di cessione dei liquidatori del vecchio Banco Ambrosiano al Nuovo Banco Ambrosiano e comincia un'altra storia. Il Presidente di Intesa-San Paolo quella storia non l'ha mai raccontata in un'intervista. Accetta di farlo per la prima volta, negli uffici dell'antica sede della Cariplo, ripercorrendo i fatti dell'Ambrosiano insieme ai misfatti dell'Italia di allora, fino a sfiorare l'Italia di oggi. La politica, il capitalismo, le banche. Bazoli oggi non vuole parlare dell'antagonismo che si è creato con l'altro grande polo nato dalla trasformazione di questi decenni, e cioè Unicredit-Capitalia, che gli ha tolto la palma di primo gruppo bancario italiano.
"Ho ottimi rapporti personali con tutti, con Geronzi e con Profumo. Non voglio fare polemiche con nessuno", dice. Ma non si nega il piacere di qualche battuta: "Nella nobile gara ingaggiata sportivamente con Profumo, possiamo dire che ora siamo sul 2 a 2. Lui si è complimentato con me quando comprammo la Comit nel '99, e io mi complimentai con lui quando concluse l'operazione con i tedeschi. L'anno scorso lui si congratulò con me per la fusione con il San Paolo, e adesso io mi congratulo con lui per la fusione con Capitalia...". Resta da capire chi segnerà adesso il 3 a 2. "Non so chi farà il prossimo gol - osserva Bazoli - ma so che se tra noi c'è una sana competizione questo è un bene per il paese, mentre diventa un male se tra i due gruppi si innesca un processo di contrapposizione, o peggio di scontro". Lui farà di tutto per evitarlo. Ma non ha cambiato idea sul conflitto di interessi che si è creato in capo a Unicredit-Capitalia negli assetti di Mediobanca e, a cascata, di Generali: "A me pare che un problema ci sia. Mi sembrava doveroso dirlo, e l'ho detto. Ora non voglio aggiungere altro".
Professor Bazoli, quale lucida follia, in quel lontanissimo agosto dell'82, la spinse ad accollarsi il disastro del vecchio Ambrosiano di Calvi?
"La verità è che, quando fui proposto per quell'incarico, esitai ad accettarlo. Furono le circostanze e le insistenze di alcuni autorevoli amici, che mi indussero, quasi mi obbligarono, ad addossarmi una responsabilità per la quale non mi sentivo affatto preparato. D'altronde, non solo io, ma tutti i protagonisti dell'operazione erano perfettamente consapevoli della difficoltà e dei rischi altissimi che l'impresa comportava. Farsi carico dell'eredità del Banco Ambrosiano voleva dire affrontare alcuni dei più gravi problemi dell'Italia di allora".
In che senso?
"Dovremmo calarci nel contesto storico in cui maturò la crisi del Banco Ambrosiano per comprendere la situazione drammatica in cui si trovava allora il nostro Paese. La vita nazionale era segnata da vicende inquietanti e torbide che sembravano minacciare le stesse istituzioni democratiche. E queste vicende erano strettamente intrecciate al dramma che si stava consumando all'Ambrosiano. Era scoppiato da poco lo scandalo della P2. La mafia dilagava. Le commistioni tra politica ed economia sembravano inestricabili. A giugno Calvi era stato trovato impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra. Il tracollo del Banco Ambrosiano fu uno shock per tutta l'Italia, ma colpì soprattutto Milano. L'Ambrosiano era per antonomasia la banca della borghesia milanese, ma per di più il suo dissesto metteva a repentaglio anche la sopravvivenza della Rizzoli".
Chi la designò alla guida del Nuovo Banco?
"Alla vigilia di quell'incredibile weekend tra il 7 e l'8 agosto dell'82 si riunirono a Roma le banche che avevano dichiarato al ministro del Tesoro, Nino Andreatta, e al governatore della Banca d'Italia, Carlo Azeglio Ciampi, la loro disponibilità a subentrare nel Banco Ambrosiano. Il mio nome per la presidenza fu proposto da quelle banche, come poco dopo fu scelto dalle stesse come direttore generale Pierdomenico Gallo".
Lei se lo aspettava?
"Assolutamente no. Allora esercitavo la professione di avvocato nello studio di famiglia a Brescia e insegnavo all'Università Cattolica di Milano. Non avevo ancora cinquant'anni. Posso dire che non ero per nulla preparato né attratto dalla prospettiva di cambiare radicalmente condizioni di vita e di lavoro. Per questo all'inizio cercai di resistere alle pressioni. Tra l'altro pensavo (sbagliando) che la mia formazione di giurista non mi sarebbe servita per guidare una banca, per di più fallita. Ma quando addussi questo argomento per giustificare la mia riluttanza ad accettare, Ciampi replicò: "Io sono diventato Governatore della Banca d'Italia e sono laureato in lettere!"".
Come avvenne il passaggio dal vecchio al nuovo Banco?
"Una volta accertato che non esistevano le condizioni per la sua sopravvivenza, il dissesto dell'Ambrosiano doveva essere dichiarato e sanzionato. Il ministro decretò quindi, su proposta del Governatore, la liquidazione coatta della società. Una decisione inevitabile ma dirompente, che Andreatta adottò contro il parere dei maggiorenti del suo partito, che, da Andreotti a Piccoli, si adoperarono sino all'ultimo per cercare soluzioni che evitassero il fallimento. Una seconda decisione, anch'essa di importanza cruciale, riguardò il perimetro delle attività da cedere al Nuovo Banco che nasceva dalle ceneri della liquidazione. Fu deciso che fossero cedute tutte le attività italiane, compresa quindi la Centrale, la quale controllava la Banca Cattolica del Veneto, il Credito Varesino, la Toro Assicurazioni, nonché il 40% della Rizzoli. Anche questa decisione incontrò forti opposizioni in sede politica. Il ministro delle Finanze dell'epoca scrisse una lettera al presidente del Consiglio, che era allora Spadolini, sostenendo la tesi che la Centrale non dovesse essere ceduta al Nuovo Banco, per rimanere di competenza dei liquidatori. Il governatore Ciampi resistette alle pressioni, ben consapevole di assumersi un grande rischio personale se gli eventi successivi non avessero dato ragione alla sua scelta. Lui stesso mi ha confidato una volta che quella fu una delle decisioni più importanti e difficili del suo governatorato".
Perché quella scelta fu così importante?
"Perché il gruppo bancario costruito da Calvi, pur nelle condizioni di collasso in cui era venuto a trovarsi, rappresentava l'unico grande polo creditizio privato che in quel momento esistesse nel sistema creditizio italiano. Se il gruppo bancario ex Ambrosiano non fosse stato affidato al pool di istituti riuniti nel Nuovo Banco, sarebbe stato completamente smembrato ovvero assorbito dalla mano pubblica".
Parliamo di una stagione lontana anni luce da quella che viviamo oggi. Allora era la norma, lo Stato padrone imperversava ovunque.
"Sì, allora non era affatto normale che l'autorità si preoccupasse di difendere il settore privato. In un certo senso si deve riconoscere che quell'operazione anticipò la stagione delle privatizzazioni. Il pool di banche che fu messo in piedi per rilevare e rilanciare le attività dell'Ambrosiano era infatti composto per il 50% da quattro banche private (Popolare di Milano, San Paolo di Brescia, Credito Romagnolo e Credito Emiliano) che fronteggiavano il 50% posseduto da tre grandi banche pubbliche (Bnl, San Paolo di Torino e Imi). Per ovviare alla grande sproporzione tra le forze in campo, furono sottoscritti accordi volti a tutelare il 50% della banche private. Ma talvolta la storia ha esiti imprevedibili. Certamente nessuno allora avrebbe potuto immaginare che, nel tempo, sarebbe prevalsa la componente privata".
Torniamo a quel weekend di 25 anni fa.
"Il consiglio di amministrazione del Nuovo Banco Ambrosiano si riunì per la prima volta il venerdì 6, che fu l'ultimo giorno di vita del vecchio Banco. Il lunedì successivo gli sportelli avrebbero dovuto riaprirsi con le insegne "Nuovo Banco Ambrosiano". In appena due giorni furono espletate pratiche che in condizioni normali avrebbero richiesto mesi. Decretare la liquidazione di una banca, farne nascere una nuova, trovare l'accordo tra la nuova banca e i liquidatori della vecchia per la cessione dei beni: tutto fu fatto durante il weekend, con uno scambio serratissimo di documenti tra Milano e Santa Severa, dove Ciampi si trovava per il fine settimana".
E la famosa domenica 8 agosto?
"L'accordo con i liquidatori del Banco Ambrosiano fu firmato, nella sede milanese di Piazza Ferrari, pochi minuti prima della mezzanotte di domenica. Non posso dimenticare il momento in cui apposi la firma su quello storico atto, che ci trasferiva le attività e le passività del vecchio Banco. Avevo accanto a me il presidente del collegio sindacale, che mi esortò sino all'ultimo a non sottoscrivere l'accordo: "Professore, ci pensi bene. Questa firma può portare a conseguenze rovinose. Rovinose per lei personalmente e per tutti coloro che saranno coinvolti in questa avventura.. ."".
Non aveva torto. La rovina la sfioraste più volte, dopo quell'agosto.
"In effetti, i primi due anni furono ad altissimo rischio. L'emorragia dei depositi, già in atto, continuò sino a limiti di rottura. Il primo bilancio, quello dell'82, si chiuse in perdita. Tra l'altro, dovevamo scontare un goodwill, a quel tempo enorme, di 350 miliardi, perché Andreatta era stato inflessibile nel sostenere che anche ad una banca fallita si dovesse riconoscere un avviamento. Negli ambienti finanziari erano molti quelli che preconizzavano il nostro insuccesso. Qualcuno ironizzava: "Al vecchio Banco è succeduto il Nuovo. Ora aspettiamo il Nuovissimo Banco". Fu in quel periodo che Cuccia mi disse la famosa frase: "Salvare l'Ambrosiano è come allacciarsi un cappotto partendo da un bottone sbagliato". Cominciai a temere che avesse ragione quando fui costretto, insieme al direttore generale Gallo, a prendere atto che l'insidia più grave di tutte era quella che minava la compagine del Nuovo Banco al suo interno. Non tutte le banche nostre azioniste si sentivano infatti impegnate a perseguire l'integrità e il rilancio del Banco. Le maggiori di esse, ad eccezione della Bnl, miravano a spartirsi le partecipazioni più pregiate e quindi attendevano con minori patemi di noi il momento in cui il Banco fosse costretto alla loro cessione".
Ricadeva sulle vostre spalle anche la grana del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera: una questione di altissima valenza politica, che incrociava lo scandalo della P2.
"La fase estremamente critica in cui si trovava la Rizzoli scaturiva da una delle più torbide storie dell'Italia di quegli anni. Per due anni la sorte del gruppo editoriale del Corriere fu interamente nelle nostre mani, essendo noi i principali creditori e nello stesso tempo i primi azionisti, tramite il 40% posseduto dalla Centrale (mentre l'altro 40% di Angelo Rizzoli era sotto sequestro). Per fortuna, essendo stata disposta l'amministrazione controllata, tutti i passaggi e le decisioni avvennero sotto il controllo della magistratura. Il che ci mise al riparo dalle insidie più gravi che altrimenti avremmo corso. In quel periodo di emergenza fu essenziale l'opera di risanamento compiuta dai professionisti che mettemmo a capo dell'azienda, soprattutto Angelo Provasoli e Roberto Poli".
Ma il rischio di fallimento della Rizzoli restava incombente...
"L'opinione pubblica e anche il mondo politico erano radicalmente divisi. Alcuni infatti sostenevano che si dovesse prendere atto che la Rizzoli era in condizioni di dissesto. Ricordo, su questo punto, un confronto molto civile, ma netto, che io ebbi con Eugenio Scalfari proprio su Repubblica".
C'era anche una normativa che vi imponeva di cedere quella partecipazione?
"Sì, questo complicava ulteriormente le cose: le banche non potevano allora detenere azioni di società editoriali. Al Banco Ambrosiano era stata concessa una deroga temporanea. Giampaolo Pansa, in una delle mie prime interviste come presidente, rimase molto colpito - mi presentò come "angelo bianco" - quando gli assicurai che mi sarei dimesso se non avessi potuto rispettare quell'impegno. Dal quale, peraltro, derivava una conseguenza ineluttabile: se al termine dell'amministrazione controllata non avessimo trovato un compratore, non ci sarebbe stata alternativa al fallimento".
Ma lei riuscì a convincere l'Avvocato Agnelli a intervenire...
"Lo avevo conosciuto un anno prima a Cernobbio e si era mostrato assai interessato e incuriosito per il modo, che gli sembrava atipico, con cui avevo affrontato la sfida del Nuovo Ambrosiano. Pochi giorni prima della scadenza dell'amministrazione controllata lo chiamai. La mattina dopo ebbi la risposta positiva. Da allora si instaurò con lui un rapporto che, in ogni caso, io considero tra i più importanti e significativi della mia esperienza".
Quando si rese conto che ce l'aveva fatta, ossia che il Nuovo Ambrosiano era ormai definitivamente fuori dalla palude?
"Ne fui convinto nel maggio del 1985, quando andò in porto l'operazione warrant, riservata agli azionisti del vecchio Banco. La sottoscrizione si chiuse con un pieno successo. Era il segnale che aspettavamo: i vecchi soci, che avevano visto azzerarsi il valore del loro titolo, credevano nel futuro della nuova banca".
Eppure voi avete rischiato più volte di essere preda, invece che predatore. E ogni volta, il regista dell'aggressione è sembrato sempre lui, il Grande Vecchio: Enrico Cuccia.
"Allorché il Nuovo Banco fu risanato e rilanciato (ed è grande merito dei primi manager che l'hanno guidato: Gallo, Trombi, Salvatori), ci trovammo esposti a un diverso tipo di rischio: quello di finire nell'orbita di altri gruppi. La prima volta accadde nell'89, quando la Popolare di Milano decise di vendere la sua quota alle Generali, lasciando agli altri azionisti solo un mese di tempo per l'esercizio di un'eventuale prelazione. Ricevetti tale comunicazione mentre stavo per imbarcarmi per il Fondo Monetario. Non cambiai programma e proprio a Washington mi venne l'idea di proporre l'acquisto di quella quota al Crédit Agricole. Al ritorno ci furono ripetuti miei incontri segreti a Parigi con Philippe Jaffré, numero uno dell'Agricole, che allo scadere del mese presentò l'offerta vincente. Ma successivamente si trovò una soluzione transattiva anche con Generali".
Questo non impedì a via Filodramamtici di riprovarci, giusto?
"Nel '94 la Comit lanciò nei nostri confronti un'Opa del tutto impropria (visto che la legge non esisteva ancora). Fu in quella occasione che l'indipendenza del Banco corse il rischio più grave e che io mi trovai più esposto anche personalmente, perché l'obiettivo della Comit era quello di acquisire il controllo, ma anche di mettere in difficoltà sia la Banca San Paolo e la Mittel, da me rappresentate, sia il Crédit Agricole che cinque anni prima aveva osato sfidare il "salotto buono". L'aggressione fu respinta al termine di alcuni giorni che furono tra i più drammatici dell'intera mia esperienza. Nel '97, infine, la Comit si contrappose a noi nell'acquisto della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde. Anche questo è un capitolo di sapore romanzesco della nostra storia, perché nel frattempo tra me e Cuccia si era instaurato un rapporto così positivo e confidenziale che io gli avevo parlato della nostra intenzione sulla Cariplo. Lui mi aveva incoraggiato a procedere. Senonché, all'ultimo momento, spuntò un'offerta concorrenziale, ricalcata sulla nostra, da parte della Comit. Cuccia allora mi scrisse e prese esplicitamente le distanze da tale iniziativa. Il giorno dopo la Fondazione Cariplo approvò all'unanimità la nostra offerta. Quell'operazione diede il via a una stagione di straordinaria crescita grazie all'acquisizione della stessa Comit e alla svolta impressa da Corrado Passera: fino all'incontro della nostra storia con quella della grande banca torinese, il Sanpaolo Imi".
Che idea si è fatto di Cuccia, dopo tutte queste battaglie?
"E' impossibile esprimere in poche parole un giudizio su un uomo dalla personalità così complessa. Un protagonista della finanza e insieme un uomo di profondo spessore spirituale e di rara finezza culturale. Ma anche con lati enigmatici, difficilmente penetrabili. Il mio rapporto con lui ha avuto fasi alterne: ad un primo periodo di competizione subentrò un'esperienza di singolare vicinanza, sino al punto che nell'ottobre del '99 egli volle che la Comit, la sua creatura prediletta, fosse acquistata da noi".
Professor Bazoli, adesso parliamo un po' dei rapporti con i politici, perché lei in tutti questi anni di politica ne ha conosciuta parecchia.
"In nessun Paese del mondo è possibile gestire una grande banca o un grande gruppo industriale senza avere rapporti con il sistema politico. L'importante è che tali rapporti siano affrontati in una condizione di piena libertà e indipendenza. Quando, ad esempio, ai primi di ottobre del 1984, Craxi mi incontrò nei suoi uffici di Piazza Duomo e volle sapere con chi stavo trattando per il subentro nella Rizzoli, io rifiutai di rispondere, perché Agnelli mi aveva posto la condizione della riservatezza sino alla presentazione dell'offerta. Craxi replicò, gelido: "Allora i nostri rapporti si interrompono qui".... E da allora non ci siamo più incontrati".
Eppure di lei si continua a ripetere: è amico di Prodi, e per questo la fusione Intesa-San Paolo è targata Ulivo.
"Conosco e sono amico di Romano Prodi dai tempi dell'Università, ma posso affermare, senza tema di smentita, di non avere mai ricevuto da lui, come presidente del Consiglio, né una richiesta né un favore. A dimostrare l'assoluta inconsistenza dell'opinione secondo cui la crescita della nostra banca sia collegabile ad un determinato orientamento politico, può servire proprio il richiamo alla storia di cui abbiamo sin qui parlato, che è la storia di una delle due banche che hanno dato vita al nostro attuale gruppo. E non occorrerà poi ricordare ancora una volta come la fusione tra Banca Intesa e San Paolo Imi sia maturata senza interferenze e addirittura all'insaputa del potere politico".
Lei però nel 2000 fu indicato come leader del centrosinistra.
"E questo mi è rimasto cucito addosso come un segno indelebile. Ma, da quando ho questo incarico di banchiere, mi sono sempre imposto di astenermi da qualunque forma di impegno politico diretto. Ritengo che chi presiede una grande banca non debba poter essere giudicato "di parte" dai suoi dipendenti e dai suoi clienti: a questa regola mi sono sempre attenuto. E non credo di cadere in contraddizione se contemporaneamente affermo di seguire personalmente con interesse le vicende politiche e di avere grande rispetto per chi si impegna nel campo pubblico. Mi piace dire questo in una stagione in cui nel nostro Paese sembra prevalere l'"antipolitica"".
Ma quanto è cambiato il sistema bancario, da quell'agosto infuocato di 25 anni fa ad oggi?
"Sembra di vivere in un altro pianeta. Nonostante le tante critiche che continuano a piovere sul sistema, va riconosciuto che il mondo bancario italiano ha compiuto progressi enormi. Il processo di liberalizzazione e le privatizzazioni, favorite dalla legge Amato e poi dalla legge Ciampi, hanno prodotto una trasformazione epocale del sistema. Fondamentale in questo processo è stato anche il ruolo svolto dalle Fondazioni, che si collocano oggi tra i più importanti corpi intermedi della nostra società, oltre a essere preziosi investitori di lunga durata".
E oggi?
"Oggi abbiamo due gruppi creditizi di dimensioni inedite nel nostro Paese, capaci di giocare un ruolo da protagonisti in ambito europeo. Accanto a questi vi sono altri istituti che operano a livello nazionale o locale e che hanno raggiunto apprezzabili livelli di solidità e di efficienza. Inoltre sul mercato si registra una competizione che era impensabile fino a pochissimi anni fa".
D'accordo, ma sui costi non siamo ancora allineati agli standard europei, come non cessa di ricordarvi Mario Draghi.
"Questi richiami vanno accolti con la massima attenzione perché rappresentano uno stimolo a ricercare, come è sempre necessario fare, risultati migliori. Ma se mi volto indietro, se ripenso a quel week-end di agosto del 1982, non posso fare a meno di stupirmi del cammino compiuto sia dalla nostra banca sia dall'intero sistema".
"Ho ottimi rapporti personali con tutti, con Geronzi e con Profumo. Non voglio fare polemiche con nessuno", dice. Ma non si nega il piacere di qualche battuta: "Nella nobile gara ingaggiata sportivamente con Profumo, possiamo dire che ora siamo sul 2 a 2. Lui si è complimentato con me quando comprammo la Comit nel '99, e io mi complimentai con lui quando concluse l'operazione con i tedeschi. L'anno scorso lui si congratulò con me per la fusione con il San Paolo, e adesso io mi congratulo con lui per la fusione con Capitalia...". Resta da capire chi segnerà adesso il 3 a 2. "Non so chi farà il prossimo gol - osserva Bazoli - ma so che se tra noi c'è una sana competizione questo è un bene per il paese, mentre diventa un male se tra i due gruppi si innesca un processo di contrapposizione, o peggio di scontro". Lui farà di tutto per evitarlo. Ma non ha cambiato idea sul conflitto di interessi che si è creato in capo a Unicredit-Capitalia negli assetti di Mediobanca e, a cascata, di Generali: "A me pare che un problema ci sia. Mi sembrava doveroso dirlo, e l'ho detto. Ora non voglio aggiungere altro".
Professor Bazoli, quale lucida follia, in quel lontanissimo agosto dell'82, la spinse ad accollarsi il disastro del vecchio Ambrosiano di Calvi?
"La verità è che, quando fui proposto per quell'incarico, esitai ad accettarlo. Furono le circostanze e le insistenze di alcuni autorevoli amici, che mi indussero, quasi mi obbligarono, ad addossarmi una responsabilità per la quale non mi sentivo affatto preparato. D'altronde, non solo io, ma tutti i protagonisti dell'operazione erano perfettamente consapevoli della difficoltà e dei rischi altissimi che l'impresa comportava. Farsi carico dell'eredità del Banco Ambrosiano voleva dire affrontare alcuni dei più gravi problemi dell'Italia di allora".
In che senso?
"Dovremmo calarci nel contesto storico in cui maturò la crisi del Banco Ambrosiano per comprendere la situazione drammatica in cui si trovava allora il nostro Paese. La vita nazionale era segnata da vicende inquietanti e torbide che sembravano minacciare le stesse istituzioni democratiche. E queste vicende erano strettamente intrecciate al dramma che si stava consumando all'Ambrosiano. Era scoppiato da poco lo scandalo della P2. La mafia dilagava. Le commistioni tra politica ed economia sembravano inestricabili. A giugno Calvi era stato trovato impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra. Il tracollo del Banco Ambrosiano fu uno shock per tutta l'Italia, ma colpì soprattutto Milano. L'Ambrosiano era per antonomasia la banca della borghesia milanese, ma per di più il suo dissesto metteva a repentaglio anche la sopravvivenza della Rizzoli".
Chi la designò alla guida del Nuovo Banco?
"Alla vigilia di quell'incredibile weekend tra il 7 e l'8 agosto dell'82 si riunirono a Roma le banche che avevano dichiarato al ministro del Tesoro, Nino Andreatta, e al governatore della Banca d'Italia, Carlo Azeglio Ciampi, la loro disponibilità a subentrare nel Banco Ambrosiano. Il mio nome per la presidenza fu proposto da quelle banche, come poco dopo fu scelto dalle stesse come direttore generale Pierdomenico Gallo".
Lei se lo aspettava?
"Assolutamente no. Allora esercitavo la professione di avvocato nello studio di famiglia a Brescia e insegnavo all'Università Cattolica di Milano. Non avevo ancora cinquant'anni. Posso dire che non ero per nulla preparato né attratto dalla prospettiva di cambiare radicalmente condizioni di vita e di lavoro. Per questo all'inizio cercai di resistere alle pressioni. Tra l'altro pensavo (sbagliando) che la mia formazione di giurista non mi sarebbe servita per guidare una banca, per di più fallita. Ma quando addussi questo argomento per giustificare la mia riluttanza ad accettare, Ciampi replicò: "Io sono diventato Governatore della Banca d'Italia e sono laureato in lettere!"".
Come avvenne il passaggio dal vecchio al nuovo Banco?
"Una volta accertato che non esistevano le condizioni per la sua sopravvivenza, il dissesto dell'Ambrosiano doveva essere dichiarato e sanzionato. Il ministro decretò quindi, su proposta del Governatore, la liquidazione coatta della società. Una decisione inevitabile ma dirompente, che Andreatta adottò contro il parere dei maggiorenti del suo partito, che, da Andreotti a Piccoli, si adoperarono sino all'ultimo per cercare soluzioni che evitassero il fallimento. Una seconda decisione, anch'essa di importanza cruciale, riguardò il perimetro delle attività da cedere al Nuovo Banco che nasceva dalle ceneri della liquidazione. Fu deciso che fossero cedute tutte le attività italiane, compresa quindi la Centrale, la quale controllava la Banca Cattolica del Veneto, il Credito Varesino, la Toro Assicurazioni, nonché il 40% della Rizzoli. Anche questa decisione incontrò forti opposizioni in sede politica. Il ministro delle Finanze dell'epoca scrisse una lettera al presidente del Consiglio, che era allora Spadolini, sostenendo la tesi che la Centrale non dovesse essere ceduta al Nuovo Banco, per rimanere di competenza dei liquidatori. Il governatore Ciampi resistette alle pressioni, ben consapevole di assumersi un grande rischio personale se gli eventi successivi non avessero dato ragione alla sua scelta. Lui stesso mi ha confidato una volta che quella fu una delle decisioni più importanti e difficili del suo governatorato".
Perché quella scelta fu così importante?
"Perché il gruppo bancario costruito da Calvi, pur nelle condizioni di collasso in cui era venuto a trovarsi, rappresentava l'unico grande polo creditizio privato che in quel momento esistesse nel sistema creditizio italiano. Se il gruppo bancario ex Ambrosiano non fosse stato affidato al pool di istituti riuniti nel Nuovo Banco, sarebbe stato completamente smembrato ovvero assorbito dalla mano pubblica".
Parliamo di una stagione lontana anni luce da quella che viviamo oggi. Allora era la norma, lo Stato padrone imperversava ovunque.
"Sì, allora non era affatto normale che l'autorità si preoccupasse di difendere il settore privato. In un certo senso si deve riconoscere che quell'operazione anticipò la stagione delle privatizzazioni. Il pool di banche che fu messo in piedi per rilevare e rilanciare le attività dell'Ambrosiano era infatti composto per il 50% da quattro banche private (Popolare di Milano, San Paolo di Brescia, Credito Romagnolo e Credito Emiliano) che fronteggiavano il 50% posseduto da tre grandi banche pubbliche (Bnl, San Paolo di Torino e Imi). Per ovviare alla grande sproporzione tra le forze in campo, furono sottoscritti accordi volti a tutelare il 50% della banche private. Ma talvolta la storia ha esiti imprevedibili. Certamente nessuno allora avrebbe potuto immaginare che, nel tempo, sarebbe prevalsa la componente privata".
Torniamo a quel weekend di 25 anni fa.
"Il consiglio di amministrazione del Nuovo Banco Ambrosiano si riunì per la prima volta il venerdì 6, che fu l'ultimo giorno di vita del vecchio Banco. Il lunedì successivo gli sportelli avrebbero dovuto riaprirsi con le insegne "Nuovo Banco Ambrosiano". In appena due giorni furono espletate pratiche che in condizioni normali avrebbero richiesto mesi. Decretare la liquidazione di una banca, farne nascere una nuova, trovare l'accordo tra la nuova banca e i liquidatori della vecchia per la cessione dei beni: tutto fu fatto durante il weekend, con uno scambio serratissimo di documenti tra Milano e Santa Severa, dove Ciampi si trovava per il fine settimana".
E la famosa domenica 8 agosto?
"L'accordo con i liquidatori del Banco Ambrosiano fu firmato, nella sede milanese di Piazza Ferrari, pochi minuti prima della mezzanotte di domenica. Non posso dimenticare il momento in cui apposi la firma su quello storico atto, che ci trasferiva le attività e le passività del vecchio Banco. Avevo accanto a me il presidente del collegio sindacale, che mi esortò sino all'ultimo a non sottoscrivere l'accordo: "Professore, ci pensi bene. Questa firma può portare a conseguenze rovinose. Rovinose per lei personalmente e per tutti coloro che saranno coinvolti in questa avventura.. ."".
Non aveva torto. La rovina la sfioraste più volte, dopo quell'agosto.
"In effetti, i primi due anni furono ad altissimo rischio. L'emorragia dei depositi, già in atto, continuò sino a limiti di rottura. Il primo bilancio, quello dell'82, si chiuse in perdita. Tra l'altro, dovevamo scontare un goodwill, a quel tempo enorme, di 350 miliardi, perché Andreatta era stato inflessibile nel sostenere che anche ad una banca fallita si dovesse riconoscere un avviamento. Negli ambienti finanziari erano molti quelli che preconizzavano il nostro insuccesso. Qualcuno ironizzava: "Al vecchio Banco è succeduto il Nuovo. Ora aspettiamo il Nuovissimo Banco". Fu in quel periodo che Cuccia mi disse la famosa frase: "Salvare l'Ambrosiano è come allacciarsi un cappotto partendo da un bottone sbagliato". Cominciai a temere che avesse ragione quando fui costretto, insieme al direttore generale Gallo, a prendere atto che l'insidia più grave di tutte era quella che minava la compagine del Nuovo Banco al suo interno. Non tutte le banche nostre azioniste si sentivano infatti impegnate a perseguire l'integrità e il rilancio del Banco. Le maggiori di esse, ad eccezione della Bnl, miravano a spartirsi le partecipazioni più pregiate e quindi attendevano con minori patemi di noi il momento in cui il Banco fosse costretto alla loro cessione".
Ricadeva sulle vostre spalle anche la grana del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera: una questione di altissima valenza politica, che incrociava lo scandalo della P2.
"La fase estremamente critica in cui si trovava la Rizzoli scaturiva da una delle più torbide storie dell'Italia di quegli anni. Per due anni la sorte del gruppo editoriale del Corriere fu interamente nelle nostre mani, essendo noi i principali creditori e nello stesso tempo i primi azionisti, tramite il 40% posseduto dalla Centrale (mentre l'altro 40% di Angelo Rizzoli era sotto sequestro). Per fortuna, essendo stata disposta l'amministrazione controllata, tutti i passaggi e le decisioni avvennero sotto il controllo della magistratura. Il che ci mise al riparo dalle insidie più gravi che altrimenti avremmo corso. In quel periodo di emergenza fu essenziale l'opera di risanamento compiuta dai professionisti che mettemmo a capo dell'azienda, soprattutto Angelo Provasoli e Roberto Poli".
Ma il rischio di fallimento della Rizzoli restava incombente...
"L'opinione pubblica e anche il mondo politico erano radicalmente divisi. Alcuni infatti sostenevano che si dovesse prendere atto che la Rizzoli era in condizioni di dissesto. Ricordo, su questo punto, un confronto molto civile, ma netto, che io ebbi con Eugenio Scalfari proprio su Repubblica".
C'era anche una normativa che vi imponeva di cedere quella partecipazione?
"Sì, questo complicava ulteriormente le cose: le banche non potevano allora detenere azioni di società editoriali. Al Banco Ambrosiano era stata concessa una deroga temporanea. Giampaolo Pansa, in una delle mie prime interviste come presidente, rimase molto colpito - mi presentò come "angelo bianco" - quando gli assicurai che mi sarei dimesso se non avessi potuto rispettare quell'impegno. Dal quale, peraltro, derivava una conseguenza ineluttabile: se al termine dell'amministrazione controllata non avessimo trovato un compratore, non ci sarebbe stata alternativa al fallimento".
Ma lei riuscì a convincere l'Avvocato Agnelli a intervenire...
"Lo avevo conosciuto un anno prima a Cernobbio e si era mostrato assai interessato e incuriosito per il modo, che gli sembrava atipico, con cui avevo affrontato la sfida del Nuovo Ambrosiano. Pochi giorni prima della scadenza dell'amministrazione controllata lo chiamai. La mattina dopo ebbi la risposta positiva. Da allora si instaurò con lui un rapporto che, in ogni caso, io considero tra i più importanti e significativi della mia esperienza".
Quando si rese conto che ce l'aveva fatta, ossia che il Nuovo Ambrosiano era ormai definitivamente fuori dalla palude?
"Ne fui convinto nel maggio del 1985, quando andò in porto l'operazione warrant, riservata agli azionisti del vecchio Banco. La sottoscrizione si chiuse con un pieno successo. Era il segnale che aspettavamo: i vecchi soci, che avevano visto azzerarsi il valore del loro titolo, credevano nel futuro della nuova banca".
Eppure voi avete rischiato più volte di essere preda, invece che predatore. E ogni volta, il regista dell'aggressione è sembrato sempre lui, il Grande Vecchio: Enrico Cuccia.
"Allorché il Nuovo Banco fu risanato e rilanciato (ed è grande merito dei primi manager che l'hanno guidato: Gallo, Trombi, Salvatori), ci trovammo esposti a un diverso tipo di rischio: quello di finire nell'orbita di altri gruppi. La prima volta accadde nell'89, quando la Popolare di Milano decise di vendere la sua quota alle Generali, lasciando agli altri azionisti solo un mese di tempo per l'esercizio di un'eventuale prelazione. Ricevetti tale comunicazione mentre stavo per imbarcarmi per il Fondo Monetario. Non cambiai programma e proprio a Washington mi venne l'idea di proporre l'acquisto di quella quota al Crédit Agricole. Al ritorno ci furono ripetuti miei incontri segreti a Parigi con Philippe Jaffré, numero uno dell'Agricole, che allo scadere del mese presentò l'offerta vincente. Ma successivamente si trovò una soluzione transattiva anche con Generali".
Questo non impedì a via Filodramamtici di riprovarci, giusto?
"Nel '94 la Comit lanciò nei nostri confronti un'Opa del tutto impropria (visto che la legge non esisteva ancora). Fu in quella occasione che l'indipendenza del Banco corse il rischio più grave e che io mi trovai più esposto anche personalmente, perché l'obiettivo della Comit era quello di acquisire il controllo, ma anche di mettere in difficoltà sia la Banca San Paolo e la Mittel, da me rappresentate, sia il Crédit Agricole che cinque anni prima aveva osato sfidare il "salotto buono". L'aggressione fu respinta al termine di alcuni giorni che furono tra i più drammatici dell'intera mia esperienza. Nel '97, infine, la Comit si contrappose a noi nell'acquisto della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde. Anche questo è un capitolo di sapore romanzesco della nostra storia, perché nel frattempo tra me e Cuccia si era instaurato un rapporto così positivo e confidenziale che io gli avevo parlato della nostra intenzione sulla Cariplo. Lui mi aveva incoraggiato a procedere. Senonché, all'ultimo momento, spuntò un'offerta concorrenziale, ricalcata sulla nostra, da parte della Comit. Cuccia allora mi scrisse e prese esplicitamente le distanze da tale iniziativa. Il giorno dopo la Fondazione Cariplo approvò all'unanimità la nostra offerta. Quell'operazione diede il via a una stagione di straordinaria crescita grazie all'acquisizione della stessa Comit e alla svolta impressa da Corrado Passera: fino all'incontro della nostra storia con quella della grande banca torinese, il Sanpaolo Imi".
Che idea si è fatto di Cuccia, dopo tutte queste battaglie?
"E' impossibile esprimere in poche parole un giudizio su un uomo dalla personalità così complessa. Un protagonista della finanza e insieme un uomo di profondo spessore spirituale e di rara finezza culturale. Ma anche con lati enigmatici, difficilmente penetrabili. Il mio rapporto con lui ha avuto fasi alterne: ad un primo periodo di competizione subentrò un'esperienza di singolare vicinanza, sino al punto che nell'ottobre del '99 egli volle che la Comit, la sua creatura prediletta, fosse acquistata da noi".
Professor Bazoli, adesso parliamo un po' dei rapporti con i politici, perché lei in tutti questi anni di politica ne ha conosciuta parecchia.
"In nessun Paese del mondo è possibile gestire una grande banca o un grande gruppo industriale senza avere rapporti con il sistema politico. L'importante è che tali rapporti siano affrontati in una condizione di piena libertà e indipendenza. Quando, ad esempio, ai primi di ottobre del 1984, Craxi mi incontrò nei suoi uffici di Piazza Duomo e volle sapere con chi stavo trattando per il subentro nella Rizzoli, io rifiutai di rispondere, perché Agnelli mi aveva posto la condizione della riservatezza sino alla presentazione dell'offerta. Craxi replicò, gelido: "Allora i nostri rapporti si interrompono qui".... E da allora non ci siamo più incontrati".
Eppure di lei si continua a ripetere: è amico di Prodi, e per questo la fusione Intesa-San Paolo è targata Ulivo.
"Conosco e sono amico di Romano Prodi dai tempi dell'Università, ma posso affermare, senza tema di smentita, di non avere mai ricevuto da lui, come presidente del Consiglio, né una richiesta né un favore. A dimostrare l'assoluta inconsistenza dell'opinione secondo cui la crescita della nostra banca sia collegabile ad un determinato orientamento politico, può servire proprio il richiamo alla storia di cui abbiamo sin qui parlato, che è la storia di una delle due banche che hanno dato vita al nostro attuale gruppo. E non occorrerà poi ricordare ancora una volta come la fusione tra Banca Intesa e San Paolo Imi sia maturata senza interferenze e addirittura all'insaputa del potere politico".
Lei però nel 2000 fu indicato come leader del centrosinistra.
"E questo mi è rimasto cucito addosso come un segno indelebile. Ma, da quando ho questo incarico di banchiere, mi sono sempre imposto di astenermi da qualunque forma di impegno politico diretto. Ritengo che chi presiede una grande banca non debba poter essere giudicato "di parte" dai suoi dipendenti e dai suoi clienti: a questa regola mi sono sempre attenuto. E non credo di cadere in contraddizione se contemporaneamente affermo di seguire personalmente con interesse le vicende politiche e di avere grande rispetto per chi si impegna nel campo pubblico. Mi piace dire questo in una stagione in cui nel nostro Paese sembra prevalere l'"antipolitica"".
Ma quanto è cambiato il sistema bancario, da quell'agosto infuocato di 25 anni fa ad oggi?
"Sembra di vivere in un altro pianeta. Nonostante le tante critiche che continuano a piovere sul sistema, va riconosciuto che il mondo bancario italiano ha compiuto progressi enormi. Il processo di liberalizzazione e le privatizzazioni, favorite dalla legge Amato e poi dalla legge Ciampi, hanno prodotto una trasformazione epocale del sistema. Fondamentale in questo processo è stato anche il ruolo svolto dalle Fondazioni, che si collocano oggi tra i più importanti corpi intermedi della nostra società, oltre a essere preziosi investitori di lunga durata".
E oggi?
"Oggi abbiamo due gruppi creditizi di dimensioni inedite nel nostro Paese, capaci di giocare un ruolo da protagonisti in ambito europeo. Accanto a questi vi sono altri istituti che operano a livello nazionale o locale e che hanno raggiunto apprezzabili livelli di solidità e di efficienza. Inoltre sul mercato si registra una competizione che era impensabile fino a pochissimi anni fa".
D'accordo, ma sui costi non siamo ancora allineati agli standard europei, come non cessa di ricordarvi Mario Draghi.
"Questi richiami vanno accolti con la massima attenzione perché rappresentano uno stimolo a ricercare, come è sempre necessario fare, risultati migliori. Ma se mi volto indietro, se ripenso a quel week-end di agosto del 1982, non posso fare a meno di stupirmi del cammino compiuto sia dalla nostra banca sia dall'intero sistema".
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